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Fabio Montrasi

Scritto da Simone Muzza il 7 gennaio 2015
Aggiornato il 2 marzo 2017

Dal 21 al 23 febbraio al Palazzo del Ghiaccio di Milano andrà in scena Live Wine, Salone internazionale del vino artigianale con piccoli e grandi vignaioli italiani e europei. Ma che cos’è un vino artigianale? Abbiamo deciso di chiederlo direttamente ad alcuni dei produttori coinvolti, in una serie di interviste che vi accompagneranno da qui all’evento. Cominciamo con Fabio Montrasi (Milano, 1963) dell’azienda familiare di Fuissé in Francia Château des Rontets.

Hai un ricordo d’infanzia legato al vino?

Ho un ricordo di cui non mi ricordo: un fatto che mi è stato raccontato da mia madre e mi ha reso astemio per ventisette anni. Ero molto piccolo e in occasione di una festa di famiglia ho finito tutti i fondi dei calici di champagne e poi sono stato malissimo e per più di vent’anni non ho più potuto avvicinare neanche il naso all’alcol. Poi per fortuna mi sono ripreso.

Puoi presentare la tua azienda? L’hai ereditata dai tuoi genitori?

Château des Rontets è una piccola azienda familiare di 6,5 ettari situata nel sud della Borgogna e costituita principalmente da un clos all’interno del quale si trovano la casa e la cantina. L’azienda appartiene alla famiglia di mia moglie Claire dalla metà del XIX° secolo, ma quando siamo arrivati non c’era più nessuno che potesse trasmetterci la conoscenza del lavoro in vigna e in cantina.

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Hai apportato delle modifiche sostanziali nel modo di fare il vino? In caso negativo: come sei riuscito a cominciare a produrre vino?

Il caso è affermativo e negativo insieme: abbiamo potuto iniziare a fare vino perché avevamo le vigne, ma abbiamo dovuto ricominciare da zero per quanto riguarda il lavoro (il che in fondo non è stato un male). Venivamo da un’altra vita (architetti a Milano) e abbiamo avuto modo di imparare seguendo i corsi per adulti nel liceo agricolo del posto e soprattutto grazie all’incontro con una serie di vignaioli locali che ci hanno accolto e aiutato.

Che uve coltivate, che vini producete, in che quantità?

Coltiviamo principalmente chardonnay e una piccola quantità di gamay. Produciamo tre tipi di Pouilly-Fuissé (cru di Borgogna) e uno di Saint-Amour (cru del Beaujolais). In un’annata normale (sempre più rara, ormai) produciamo circa 30.000 bottiglie.

Quante persone lavorano da voi? Accogliete richieste di giovani che vorrebbero lavorare in un’azienda vinicola? Ne ricevete molte?

Siamo in tre a tempo pieno: mia moglie Claire, il nostro braccio destro Nicolas ed io. In più, riceviamo ogni anno tirocinanti e giovani in stage, che sono sempre benvenuti.

Naturale, biologico, biodinamico, artigianale… Le definizioni sui vini si sprecano, e il consumatore è sempre più confuso. Voi come definireste il vostro vino?

Sicuramente artigianale (vista la dimensione dell’azienda e il nostro coinvolgimento diretto in ogni operazione) e biologico (abbiamo una certificazione Ecocert dal 2005). Non lavoriamo in biodinamica perché ho qualche difficoltà intellettuale rispetto al pensiero di Steiner (di cui ho letto vari testi), ma ci serviamo di tisane e decotti e teniamo conto delle fasi lunari per varie operazioni in vigna e in cantina. Per quanto riguarda la definizione “naturale”, posso dire che i nostri vini sono fatti con l’uva e giusto il minimo possibile di solfiti (niente lieviti selezionati né batteri né zucchero né acidi né enzimi né attivatori fermentari né filtrazione).

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Il tuo vino contiene solfiti aggiunti? Se sì, perché?

Personalmente, ritengo che lo chardonnay vinificato senza solfiti si orienti quasi sempre verso la famiglia aromatica ossidativa, che io non prediligo: per questo usiamo basse dosi di solfiti per i nostri Pouilly-Fuissé. Il gamay è invece un vitigno naturalmente orientato verso la riduzione e quindi il nostro Saint-Amour è vinificato senza solfiti. Un altro aspetto da non trascurare e che giustifica ai miei occhi l’uso di dosi minime di solfiti è la conservazione del vino durante il trasporto, visto che spesso le nostre bottiglie devono attraversare oceani e continenti in condizioni di temperatura non sempre ideali.

Live Wine 2015 si definisce “Salone Internazionale del Vino Artigianale”. Che cos’è un vino artigianale per te?

È una definizione non semplice: si potrebbe forse definirlo come un vino prodotto entro limiti di scala (di ettari e di ettolitri) abbastanza contenuti da garantire al vignaiolo il controllo diretto e la partecipazione in prima persona a tutte le fasi della produzione, dalla potatura fino all’imbottigliamento e allo smercio finale.

Ma un vino artigianale è migliore a prescindere di uno industriale? O è solo più sano? E poi, sei sicuro che zolfo e rame sono più sani per l’organismo?

Non credo che si possa dire che un vino artigianale è migliore a prescindere, anche se è molto probabile che sia proprio così. Per quanto riguarda il suo essere sano, le cose si complicano ancora: artigianale non è sinonimo di biologico, e l’uso di zolfo e rame in vigna non è assolutamente legato alla dimensione artigianale di un’azienda. Per finire, penso che zolfo e rame siano sicuramente meno nocivi per l’organismo di tutte le molecole chimiche complesse che compongono i prodotti fitosanitari di sintesi. Ma questo non significa che non ci si debba porre il problema della limitazione delle loro dosi.

La maggior parte dei vini sul mercato sono prodotti con diserbanti, concimi di sintesi, pesticidi, ingredienti di originale animale… Sei favorevole a una normativa che costringa i vignaioli a scrivere tutto quello che c’è nelle bottiglie e come viene ottenuto il vino? Perché? In caso affermativo, pensi sia un traguardo raggiungibile in tempi brevi?

Sì, sono assolutamente favorevole perché una maggiore trasparenza porterebbe sicuramente a una limitazione dei prodotti utilizzati, grazie alla presa di coscienza della società civile. Per quanto riguarda i tempi di attuazione invece non mi farei troppe illusioni, vista l’influenza della lobby dei produttori industriali di vino. Detto questo, bisogna distinguere tra ciò che si mette in vigna e ciò che si mette nel vino: spesso l’effetto più nocivo delle molecole chimiche di sintesi utilizzate in
vigna non si produce direttamente su chi beve il vino, ma soprattutto su tutto l’ecosistema in cui la vigna è piantata.

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3 bottiglie che porteresti sulla Luna?

– Un pinot nero della Côte-de-Nuit di almeno una decina d’anni: scegli tu.

– Vintage Port 1963

– Champagne Substance di Anselme Selosse (ma cosa succede alle bollicine, sulla Luna?)

Cosa bevi a parte il vino?

Acqua. E birra, whisky, rum, chartreuse, armagnac. E quando guido ogni tanto pure Coca-Cola.

Cosa significa per te bere responsabilmente? Bevi tutti i giorni?

Non bevo tutti i giorni ma mi capita spesso di bere per un motivo o per l’altro, visto il mestiere che faccio. Per me bere responsabilmente vuol dire soprattutto pensare sempre a cosa c’è dietro a quello che si beve: portare rispetto quando è il caso e pure disprezzare, se la cosa è giustificata. Ma si può anche decidere di sbronzarsi, responsabilmente.

Qual è il rimedio per una sbronza?

In generale, per ingranare la prima il mattino dopo la cosa che funziona meglio è un bicchiere di buono champagne, che ti trasmetta tutta la propria energia insieme a un po’ di alcol per risalire in dolcezza. Altrimenti anche una buona birretta va benissimo.

Leggi qui le interviste con altri protagonisti di Live Wine.